Ci sono dei rari momenti della vita in cui veniamo colpiti da picchi di eccessi di autostima che a volte possono esserci fatali o in cui, più spesso, possiamo sembrare ridicoli. In uno dei miei eclatanti momenti, oltre quello memorabile in cui ho pensato che se Beyoncé ha fondato la sua carriera sul suo abbondante lato B grande quanto il mio comodino, non c’era motivo per cui io non avrei potuto comprare quel vestitino attillatissimo (che non ho mai indossato), in un altro, ho voluto paragonarmi a Julia Roberts in “mangia, prega, ama” e sempre per i picchi di cui sopra, la poca ossigenazione al cervello deve avermi fatto pensare che si, potevo farlo anche io che di mangiare ne avevo fatto in passato un mestiere, pregare è uno stile di vita giornaliero con il mantra “ liberaci dai casi umani” e ama vorrei imparare a farlo in una maniera grandiosa: in silenzio e senza aspettarmi nulla. Ma questa è un’altra storia.
Insomma, è successo più o meno così che in preda allo slancio, mi sono presa di coraggio e ho prenotato la mia prima vacanza da sola alle Eolie.
Complice il desiderio che avevo nel cuore di tornare a Salina che mi aveva fatta innamorare lo scorso anno e la voglia di stare in mia compagnia, di assecondare il mio ritmo senza dover raggiungere compromessi sulle cose da fare e vedere com’è stare da soli davvero, mi sono tuffata in questa esperienza della vacanza solitaria.
Il risultato di questo esperimento è stato entusiasmante e credo che diventerà un rituale da ripetere almeno una settimana l’anno nel mese di giugno.
Ho potuto infatti godere del periodo perfetto per vivere le Eolie e forse, più in generale, per andare in vacanza complici hotel e locali poco affollati, bella gente, prezzi accessibili, ottime temperature, staff al top della forma e desideroso di dare il meglio di sé agli ospiti.

La mia vacanza si è concentrata prettamente sull’isola di Salina, con una breve incursione a Panarea e il ritorno nella tanto amata “’isola verde” delle Eolie, per me in assoluto la più bella, un piccolo gioiello pieno di poesia: Pollara con le sue nicchie divenute riparo per le imbarcazioni dei pescatori mi ha regalato i più bei momenti di pace, il primo bagno dell’anno nelle acque limpide e cristalline di Scalo Galera mi ha restituita con un tocco gelido al mio elemento primordiale. E poi ancora la libertà di scorrazzare con lo scooter (rigorosamente elettrico) per le strade di Malfa mentre venivo avvolta dagli odori: felce, gelsomino, ginestra tutti profumi di cui mi sono inebriata e che avrei voluto portare con me; poi ancora l’aperitivo alle 18 a Pollara durante la proiezione di “Il Postino” con l’indimenticabile colonna sonora di Luis Bacalov che ho canticchiato durante tutti i tragitti in giro per l’isola, il caffè e le chiacchiere con Giampiero, Emanuele, i drink all’hotel Ravesi con la piacevole compagnia di Giuseppe; e ancora il giro con la barca dell’hotel Ravesi in compagnia del capitano Michele con i racconti sull’isola della segale cornuta di Alicudi e Filicudi e delle donne volanti*.

In questo mio soggiorno solitario ho scelto di regalarmi il massimo del comfort dapprima presso Capofaro, resort della celebre casa vitivinicola siciliana Tasca d’Almerita la cui tenuta è situata appunto presso il faro con vigneti di malvasia che si estendono per sei ettari.
La struttura gode di una posizione invidiabile con vista su Filicudi e Stromboli, vigneti anfiteatro, l’orto, un campo da Padel, la piscina e un wine bar dove gustare le migliori annate ed esplorare lo stile inconfondibile di Tasca.

Il mio soggiorno è proseguito poi presso l’hotel Signum di proprietà della famiglia Caruso, dove Luca e Martina portano avanti un progetto di ospitalità e ristorazione che è valso una stella Michelin al ristorante capitanato dalla giovane chef premiata “miglior chef donna Michelin” nel 2019.
Luca Caruso si occupa della gestione dell’hotel e della sala ed è un perfetto padrone di casa: attento, garbato, accogliente e di grande simpatia.
A lui devo degli assaggi memorabili e la scelta di tornare tre sere consecutive per scoprire i piatti del nuovo menu.
Oltre ai must della cucina di casa Caruso che annovera la bagna cauda ai ricci e la carbonara di mare, il nuovo menu propone piatti capaci di raccontare l’isola negli ingredienti e nei profumi. Tra gli antipasti colpisce il carpaccio di ricciola con olio alle erbe e colatura di alici, un piatto sinestetico capace di rievocare tutti i profumi presenti sull’isola, semplice eppure ricchissimo e paradossalmente essenziale nel raccontare Salina. (Note di viaggio: da assaporare dopo una passeggiata nella strada che da Pollara riporta al centro di Malfa nel tardo pomeriggio quando i profumi nelle zone ombrose si fanno più intensi.)

Altro piatto del nuovo menu è la murena 2.0, con gelatina di brodo e limbarda.
È una scelta poco usuale quella di trattare nella cucina di un ristorante stellato un pesce povero come la murena utilizzato per lo più per insaporire le zuppe, ma non per il Signum che ha deciso di fare della sua cucina un baluardo della tutela del mare e della biodiversità rispettando i cicli della pesca e di ogni materia prima.

La cucina del Signum colpisce per la forte personalità, per il racconto che fa dell’isola, capace di coinvolgere tutti i i sensi riportando nei piatti i profumi che la caratterizzano in un continuo dialogo tra natura e bellezza fatto di ascolto e conservazione dell’autenticità.
L’incredibile cantina del Signum che oggi conta circa 1200 etichette, è frutto della passione, dell’impegno e dell’esperienza di Luca Caruso, abilissimo narratore dell’Italia del vino e delle sue migliori espressioni; non lo ringrazierò mai abbastanza per l’assaggio (tra i tanti) di un apprezzatissimo calice di Terra di Lavoro 2015, blend di Aglianico e Piedirosso dell’azienda vinicola Galardi.
Tra le cose da non perdere a Salina c’è sicuramente la scoperta del suo nettare prezioso, la Malvasia. Una delle aziende più rappresentative dell’isola e che ne sta ben interpretando l’anima è senza dubbio quella di Nino Caravaglio. L’azienda nacque nel 1989 ed era dedita principalmente alla produzione di capperi e vino. In quel periodo l’isola aveva in parte perso la sua vocazione agricola complice l’avvento del turismo, ma in modo sempre più caparbio, Nino Caravaglio decise di puntare sull’agricoltura dell’isola per valorizzare i vitigni autoctoni di Malvasia e Corinto Nero seguendo i dettami della produzione biologica. Oggi l’azienda Caravaglio vanta 20 ettari di terreno dislocati tra i comuni di Malfa S.Marina, Lingua e Lipari. L’intuizione più illuminata di Nino Caravaglio è stata quella di vinificare le uve Malvasia come un bianco secco a partire dal 2010 pensando a un vino che potesse accompagnare il pasto, mostrando egregiamente che la vocazione della Malvasia non è unicamente quella dei vini passiti, ma che ne esistono altre espressioni capaci di sorprendere come fanno le note salmastre e minerali del suo Infatata , un vino la cui magia non poteva che essere riprodotta da un isolano e che è stato il vino perfetto per accompagnare un viaggio di rinascita nelle prime fresche sere d’estate, quando il gelsomino profuma l’aria portando con sé illusione di nuove possibilità, insieme al luccichio delle stelle e alla brezza che sale dal mare. E in questo splendido viaggio in cui sono stata sola non ho mai avuto così tanta pienezza dagli incontri e dalle stanze dell’anima in cui ho abitato.

N.B.* La storia della segale cornuta. Tratto dal web https://microsphera.webnode.it/l/le-streghe-di-alicudi-donne-che-volano-tagliatori-di-tempeste-e-pane-psichedelico-note-di-folklore-eoliano/
“Pare che il la storia delle donne volanti sia da ricondurre al consumo di pane prodotto con segale infestata dalla claviceps purpurea, un fungo parassita delle graminacee, conosciuto anche con il nome di ergot, in francese ‘sperone’, per via degli sclerozi a forma di corna che crescono sulle spighe della pianta da cui deriva il nome ‘segale cornuta’ con il quale è conosciuta nella tradizione popolare. L’ergot ha potenti proprietà allucinatorie e psichedeliche, fu utilizzato dallo scienziato Albert Hoffman durante i suoi esperimenti che portarono alla scoperta dell’Lsd, l’acido lisergico, uno dei più potenti allucinogeni conosciuti. L’assunzione di forti quantità del fungo provoca l’ergotismo cancrenoso, anche conosciuto come “Fuoco di Sant’Antonio”, “Fuoco sacro”, o “Male degli ardenti”, a dosi più contenute invece il parassita provoca allucinazioni fortissime e profondi stati visionari.
Ci sono due differenti ipotesi sulla presenza della segale cornuta ad Alicudi: per alcuni il cereale proveniva da derrate alimentari che venivano portate sull’isola da Palermo e Messina, per altri erano stesso le piccole coltivazioni locali che venivano colpite dal parassita. Gli arcudari in ogni caso sembrano aver consumato in massa pane prodotto con una miscela di vari cereali, tra cui la segale colpita dall’ergot e di essere stati quindi protagonisti di allucinazioni collettive che si sono protratte per anni fino a produrre la vasta congerie di racconti e storie fantastiche. Sembra che la vicenda possa essere collocata in un arco di tempo ben circoscritto e cioè tra il 1902 e il 1905, periodo in cui carestie, emigrazione e povertà avevano costretto gli isolani a panificare con derrate di segale colpite dall’ergot. Forse proprio come conseguenza della fame prodotta dalle carestie, molti racconti tramandano storie di lauti banchetti e feste in spiaggia ricche di ogni prelibatezza. D’altronde il medioevo europeo è pieno di episodi in cui intere comunità furono interessate da fenomeni allucinatori di massa a causa del consumo di pane prodotto con la segale cornuta. Una delle teorie più accreditate quindi vede gli arcudari come una sorta di inconsapevoli antesignani degli hippies della rivoluzione psichedelica che sarebbe divampata solo 60/70 anni più tardi. Con una differenza sostanziale: l’assunzione inconsapevole di una sostanza che produce effetti allucinatori, conduce ad esperienze più profonde, inspiegabili e soprattutto incontrollabili rispetto a quelle di chi consapevolmente assume una sostanza conscio delle sue proprietà visionarie. Secondo questa prospettiva in quei tre anni gli isolani dovettero fare i conti con una percezione espansa della realtà, dovettero abituarsi a stati alterati di coscienza, dovettero in definitiva familiarizzare con le visioni fino al punto di ritenerle reali. L’ipotesi relativa al consumo di pane prodotto con cereali colpiti dall’ergot sembra essere oggi quella più accreditata anche da parte di alcuni isolàni”.